Se i recenti dati che confrontano gli stipendi italiani e quelli di altri paesi europei in seguito alla laurea hanno scatenato un grande e variegato dibattito, ad avermi colpito particolarmente è un altro dato. Nell’ultimo rapporto Almalaurea 2024 si registra che più del 70% dei laureati trasferitisi all’estero ritiene improbabile il proprio rientro in Italia. Un dato sconfortante soprattutto se consideriamo che, soltanto tra il 2011 e il 2021, si stima che circa 1,3 milioni i giovani abbiano lasciato il nostro paese.
Sebbene sia una scelta del tutto lecita in un mondo così interconnesso, questo fenomeno rappresenta per il nostro paese una perdita enorme, spesso definita in modo riduttivo “fuga di cervelli”. Non sono solo i cervelli a fuggire, sono le idee, la visione, i talenti e i valori dei giovani, ovvero quelli che hanno più a cuore la costruzione di un futuro, perché quel futuro lo abiteranno. E allora come fa a non importarci? Perché voler partire non è un problema, ma non voler tornare ci racconta tanto del contesto in cui viviamo.
Molti paesi, tra cui l’Italia stessa, hanno messo in piedi delle strategie per favorire il rientro dall’estero dei propri connazionali, offrendo svariati incentivi fiscali a chi decide di tornare. I dati sopra citati sono però inequivocabili, e ci dicono che evidentemente tutto questo non basta. Per mettere ognuno nelle condizioni di tornare – e di voler tornare – bisogna andare alla radice di tali scelte. Interrogarsi su quali siano i motivi per cui si parte, i vantaggi e le condizioni di vita che i giovani lavoratori cercano spesso lontano da qui. È necessario che imprese e istituzioni portino avanti un’approfondita riflessione, costruendo passo dopo passo un ecosistema in cui i lavoratori abbiano voglia di restare, tornare, lottare. Perché un Paese che lascia andare i suoi giovani è un paese miope, ma un Paese che non fa nulla per farli tornare è doppiamente colpevole.
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